lunedì 4 aprile 2011

"Federalismo fiscale e fiscalità di vantaggio "- Avv. prof. Alessandro Dagnino - Comitato Scientifico di C.A.Me.L.O.S.




Il federalismo fiscale viene considerato, nel dibattito politico contemporaneo, la soluzione per ridurre gli sprechi e migliorare l'efficienza della Pubblica amministrazione. Si ritiene inoltre, da parte di molti, che una riforma del sistema fiscale della Repubblica in senso federale possa contribuire a creare opportunità per le regioni svantaggiate, consentendo loro di attrarre imprese sul territorio, mediante la riduzione del carico fiscale locale.
È noto che la riforma del titolo quinto della Costituzione, avvenuta nel 2001, ha impresso all'ordinamento della Repubblica un'impronta federale. È altresì noto, tuttavia, che solo negli ultimi tempi, dopo oltre dieci anni, gli aspetti finanziari e fiscali di tale riforma stanno iniziando ad essere davvero affrontati in sede applicativa.
Fondamentale è stata, al riguardo, l'approvazione della legge 5 maggio 2009, n. 42, con la quale il Parlamento ha delegato al Governo l'attuazione dell'art. 119 della Costituzione, delega il cui esercizio costituisce tema di massima attualità.
Non interessa, in questa sede, trattare delle numerose questioni ancora poco chiare che emergono dalla lettura della legge-delega. Interessa piuttosto comprendere in che modo il federalismo fiscale può trovare applicazione nel territorio siciliano e in che termini esso può contribuire allo sviluppo dell'economia di tale territorio.
È opportuno partire dallo status quo.
Si afferma, comunemente, che lo Statuto regionale siciliano adottato nel 1946 abbia disegnato una sistema federalista ante litteram.
L'art. 36 dello Statuto prevede infatti che «Al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima». Vengono fatte salve alcune imposte minori, riservate allo Stato.
L'art. 37 prevede inoltre che alla Regione competa la quota di imposta corrispondente al reddito che le imprese aventi sede centrale fuori dal territorio regionale producono in Sicilia attraverso stabilimenti ed impianti situati nell'isola.
L'idea originaria sembrava essere quella di consentire alla Regione di stabilire un proprio sistema tributario, introducendo propri tributi, nonché di assegnarle i tributi versati allo Stato dalle imprese non siciliane per le attività produttive localizzate nel territorio regionale.
L'applicazione di tali principi fu però notevolmente contrastata, specie dalla giurisprudenza della Corte costituzionale ed infine, con le norme cc.dd. «di attuazione» dello Statuto regionale in materia finanziaria, approvate con D.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074, se ne snaturò del tutto la portata.
Infatti con dette disposizioni «attuative» dello Statuto si stabilì, in relazione all'art. 36, che la Regione avesse diritto non già di «deliberare» propri tributi, ma di percepire, da un lato, la quasi totalità (salve poche eccezioni) dei tributi statali riscossi sul suo territorio (c.d. principio della «territorialità della riscossione»), dall'altro lato, le entrate «che, sebbene relative a fattispecie tributarie maturate nell’ambito regionale, affluiscono, per esigenze amministrative, ad uffici finanziari situati fuori del territorio della Regione» (c.d. principio della «territorialità dell'imposta»).
Questo secondo principio è rimasto, in concreto, inattuato, cosicché la finanza regionale è ancora oggi fondata sul primo principio.
Con riguardo all'art. 37 dello Statuto, poi, le norme di «attuazione» rimasero talmente generiche da non essere esse stesse attuabili, in modo che anche tale disposizione è restata, sostanzialmente, lettera morta.
Il sistema vigente costituisce l'esatto opposto del federalismo e dell'autonomia: oggi, infatti, la regione subisce interamente le scelte fiscali effettuate a livello statale. Cosicché se lo Stato, attraverso il Parlamento nazionale, decide di aumentare i tributi, la Regione vede aumentare il proprio gettito; se lo Stato decide di diminuire la pressione fiscale le entrate regionali diminuiscono.
Ecco in che modo il supposto federalismo ante litteram pensato dai padri fondatori per enfatizzare l'autonomia regionale è divenuto la massima espressione del centralismo statuale, in linea con una concezione paternalista nei confronti del Mezzogiorno che si è sviluppata sin dalla fine dell'Ottocento e che sembra ancora oggi piuttosto viva.
Appare evidente, però, che il centralismo ed il paternalismo non hanno risolto e sembrano, anzi, avere peggiorato la situazione socio-economica del Sud e della Sicilia in particolare, come confermato dai principali indicatori statistici.
L'introduzione del federalismo fiscale potrebbe dunque essere un'occasione importante perché, obbligando a mettere in discussione lo status quo, potrebbe consentire di superare la situazione di stallo nella quale ci si trova da molti anni.
Ma in quale ottica la Regione siciliana dovrebbe muoversi, nel quadro del federalismo fiscale? Quali gli indirizzi e le strategie da seguire?
L'art. 119 Cost. e la già citata legge-delega n. 42 del 2009 introducono spazi di autonomia fiscale e finanziaria per le Regioni a statuto ordinario molto più ampi di quelli in precedenza riconosciuti.
Se la Regione siciliana non modificasse il proprio assetto si potrebbe verificare la paradossale situazione per la quale le Regioni ordinarie godrebbero di maggiore autonomia rispetto a quella che dovrebbe essere la più autonoma tra le Regioni a statuto speciale.
Considerato che non sembrano venute meno, oggi, le ragioni che nel 1946 giustificarono il riconoscimento della «specialità» alla Regione, occorre chiedersi quali possano essere le prerogative che consentirebbero alla Sicilia di realizzare un trend di sviluppo economico maggiore rispetto al resto d'Italia, al fine di colmare il divario esistente.
In primo luogo occorrerebbe, ad avviso di chi scrive, considerare l'abbandono del principio della territorialità della riscossione, che pur essendo apparentemente vantaggioso quanto ai risultati di gettito prodotti, limita notevolmente la possibilità per la Regione di realizzare politiche fiscali e scelte di finanza pubblica e, dunque, di essere davvero «artefice del proprio destino».
In alternativa si potrebbe considerare la possibilità di mantenere tale principio, disciplinando però, in modo chiaro, il potere della Regione siciliana di modificare nel proprio territorio l'applicazione dei tributi statali, prevedendo ad esempio il potere di variarne le aliquote, la base imponibile, le agevolazioni. Questo potere è già stato riconosciuto in passato da alcune sentenze della Corte costituzionale, ma i suoi limiti appaiono talmente stretti e indefiniti che la Regione soltanto in casi del tutto sporadici e marginali ha potuto esercitarlo.
Se si ottenesse quanto sopra si potrebbe finalmente realizzare, magari su basi di carattere costituzionale, quella fiscalità differenziata che da molti anni viene inutilmente reclamata dalla politica, forse senza il supporto di un adeguato approfondimento tecnico-giuridico.
Né, per quanto riguarda la fiscalità d'impresa, sembrerebbero porsi ostacoli di carattere comunitario all'esercizio delle auspicate prerogative, poiché un eventuale riconoscimento statutario del potere della Regione di stabilire il proprio regime fiscale — a condizione che questo regime abbia carattere «orizzontale», sia cioè applicato uniformemente su tutto il territorio regionale e che rimangano a carico del bilancio della Regione le relative conseguenze finanziarie — non dovrebbe contrastare con il Trattato UE, come suggerito dalla Corte di Giustizia nel celebre caso «Azzorre» del 2006.
In secondo luogo andrebbe rilanciato il principio della territorialità dell'imposta che, come già accennato, pur essendo stato introdotto in Sicilia nel 1965, non ha trovato effettiva attuazione. Anche altre regioni a statuto speciale, come il Trentino Alto Adige e la Sardegna, in sede adeguamento dei rispettivi ordinamenti finanziari hanno adottato tale criterio, che pare in linea con l'obbiettivo di valorizzare le attività economiche effettivamente impiantate in sede locale.
In terzo luogo sarebbe opportuno considerare la possibilità di introdurre, nel rispetto dei limiti comunitari, istituti di fiscalità di vantaggio «non orizzontali», ovvero applicati a singoli settori produttivi della Regione o a imprese collocate in particolari aree del territorio della stessa.
Tale possibilità è espressamente prevista dalla legge n. 42 del 2009, la quale però si limita ad enunciazioni di principio, senza offrire concrete indicazioni al riguardo.
Può affermarsi sin d'ora che l'attuale assetto comunitario sembra escludere la possibilità di percorrere con successo la strada dell'istituzione delle tanto auspicate «zone franche», delle quali, in sede politica, si è spesso parlato senza adeguata cognizione.
Più verosimile appare la possibilità, già parzialmente realizzata in Sicilia, di ottenere da Bruxelles l'autorizzazione all'introduzione di crediti d'imposta per le imprese. Ma va considerato che l'efficacia di tali strumenti derogatori delle regole del Trattato UE deve essere decrescente e limitata nell'intensità e nel tempo. Non sembra dunque che tali strumenti possano «fare la differenza» per la realizzazione di uno stabile sviluppo economico.
Più utile può forse essere la istituzione delle cc.dd. «zone franche urbane», che, sulla base della positiva esperienza francese, sono state recentemente previste, su base nazionale, con legge dello Stato; tuttavia non hanno ancora visto la luce a causa della mancanza dei decreti attuativi.
Tali forme di fiscalità di vantaggio, che consistono nella previsione di agevolazioni fiscali localizzate in aree territoriali poste all'interno di singoli comuni, non presentano problemi di compatibilità con il diritto comunitario, purché mantenute entro i limiti quantitativi (c.d. «de minimis») fissati dal Consiglio UE; esse, nella persistente inerzia dello Stato, potrebbero essere stabilite con legge regionale.
Quelle sin qui esposte sono idee preliminari, per la cui attuazione occorrerebbe svolgere gli opportuni approfondimenti. Si confida che esse possano contribuire ad alimentare il dibattito, forse ancora non adeguatamente carico di vivacità, su un tema cruciale per lo sviluppo economico della Sicilia
Sviluppo al quale si dovrebbe puntare abbandonando l'ormai anacronistico atteggiamento di chi chiede risorse o aiuti al governo centrale e, piuttosto, cercando di ottenere poteri e prerogative utili per realizzare, con le proprie forze e sotto la propria responsabilità, gli obiettivi e le sfide del futuro.

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